Ozlem Onder, curda rifugiata in Italia, accusa: “Ragazze e ragazzi coraggiosi lasciati soli a combattere contro l’Isis.Arrivata 15 anni fa con la famiglia per sfuggire alle violenze in Turchia, confessa: “Studio per aiutare un giorno il mio popolo”.
Quell’ultimo selfie farà fatica ad andar via dalla nostra mente. L’immagine dei giovani sorridenti e pronti a dare il loro contributo per la ricostruzione di Kobane, diventata virale sui social, racconta meglio di tante parole l’assurdità di questa guerra. Nella città simbolo della resistenza curda contro la follia dell’Isis, volevano ricostruire: una biblioteca, un bosco, un campo giochi. Ad ucciderli una kamikaze appena 18enne. Giovanissima come loro. “Nella terra in cui i bambini non sanno più ridere, in cui nascono inevitabilmente già adulti”, quello di Suruc “è l’ennesimo attacco voluto e programmato per distruggere il mio popolo”, scrive sulla sua pagina facebook Ozlem Onder, 22enne curda di Turchia rifugiata politica in Italia.
Una storia che corre parallelamente a quella di un popolo. Giunta a Milano quindici anni fa, Ozlem, oggi prossima alla laurea in Scienze Politiche, è fuggita dalla Turchia al seguito dei genitori quando era ancora una bambina. “Mio padre non voleva fare il militare e questo lo espose al carcere, violenze e torture. Anche mia madre venne ripetutamente picchiata”, racconta al telefono con voce squillante e ferma. Quando fuggirono verso l’Italia la mamma di Ozlem, Selma, aveva 27 anni e già cinque figli. Il viaggio a bordo di un barcone di fortuna lo ricorda appena. “Fare il militare nell’esercito turco, per un curdo significa combattere contro il suo popolo”, tale e tanta è la repressione identitaria subita lungo la storia. Il carcere è il luogo dove si fiacca ogni opposizione.
Oggi madre, padre e fratelli (nel frattempo diventati sette) sono già cittadini italiani. Ozlem mantiene lo status di rifugiata politica. “La conseguenza più dolorosa è che non posso tornare a casa mia in Turchia”. E in certi momenti, assistere inerme a quanto sta accadendo brucia come il fuoco. “Il mio popolo è stato abbandonato da tutti – il tono è accusatorio – lasciato solo a combattere contro l’Isis: perché la Turchia e i Paesi occidentali, non proteggono il popolo curdo?”.
Oltre la rabbia c’è il dolore. Per un parente morto o un altro partito al fronte. “Mia zia che è andata a Kobane per arruolarsi: ha solo 23 anni – dice abbassando il tono -. Quello che penso è che se ci fosse più attenzione da parte della comunità internazionale forse queste ragazze giovani non sarebbero costrette ad abbandonare tutto per andare a combattere. Non è giusto”.
Forse è meglio spezzare il flusso di pensierie mettere da parte la visione romantica della guerra “per la libertà” a cui gli occidentali con troppa facilità si abbandonano. La verità è che giovani donne e uomini lasciano casa, figli piccoli, terre per andare a combattere. Scelta “inevitabile” che si spiega con un concetto semplice: l’amore per la patria, quella storicamente negata. “La nostra patria per noi è molto importante”, dice semplicemente. Ma la conseguenza sono famiglie spezzate dai reclutatori che passano di casa in casa portandosi dietro coraggio, entusiasmo e rabbia. La “meglio gioventù” che lascia i villaggi, condannandoli ad una povertà ancora maggiore.
“Ma oggi tutto questo non ha senso, non dobbiamo rimanere fermi a cento anni fa”, tuona Ozlem. “Ci sono norme internazionali, trattati che danno tante soluzioni alternative alla guerra e che gli Stati devono rispettare”. L’Isis può essere fermato seguendo questa via piuttosto che lasciando i curdi soli a combattere. “Mettere in campo le armi del dialogo, ecco la soluzione”, spiega. E nel frattempo? “Nel frattempo al fronte i kurdi combattono da soli”, osserva. “In Turchia c’è un numero elevato di soldati professionisti: perché il governo non li manda a rinforzare le linee? Il mio popolo è coraggioso – insiste – ma sta perdendo tanto, troppo”. La sensazione è quella dell’abbandono. “Siamo arrabbiati soprattutto con la Turchia e con i Paesi arabi, nostri vicini, che pur essendo militarmente forti non ci aiutano”, dice senza trattenere l’amarezza. La conclusione è spietata: “E’ come se il governo dicesse: lasciamoli fare così ci pensa l’Isis a farli fuori piano piano”.
Il punto di osservazione di Ozlem è privilegiato. Non solo notizie mediate da televione e internet, ma testimonianze dirette di parenti e amici che stanno vivendo il dramma attuale. Vivere a Milano poi non lenisce l’ansia. “Sento la responsabilità e il dovere nei confronti del mio popolo proprio perché ho avuto la possibilità di stare qui – dice -. E quando sento di quello che ancora succede in Turchia, mi si spezza il fiato”. E racconta: “Mio cugino ventenne si è suicidato perché non voleva fare il militare: questo succede ancora oggi”.
Da qui la necessità di acquisire conoscenze e competenze per poi “dare il mio personale contributo”. Tornare in Turchia insomma e fare quello che il governo turco non vuole fare per i suoi cittadini. “E’ vero che siamo kurdi, ma siamo anche turchi”, afferma. Dare un contributo per il progresso sociale dei villaggi è l’idea. “Da noi le ragazze non studiano, fanno pochi anni di scuola e poi sono costrette ad abbandonare per mettersi a lavorare. Vorrei aiutarle, fare in modo che possano avere la possibilità di studiare”, dice sottolineando la differenza abissale tra il vivere “da turchi” e “da curdi”.
E la storica rivendicazione di uno Stato? Anche su questo Ozlem ha idee chiare a dispetto della sua giovane età. “Sono contraria al concetto di stato nazione perché non funziona – dice -. Soprattutto nel Medioriente e nel Maghreb, non si può applicare ai nostri Paesi. Piuttosto – spiega – una regione autonoma, come quella che è stata creata in Iraq e che funziona benissimo: si potrebbe fare lo stesso in Turchia, Siria e Iran”. Secondo la giovane donna “quattro lingue, quattro alfabeti, diverse religioni fanno sì che uno stato unitario del Kurdinstan non sia la migliore soluzione”. Poi oggi il mondo è cambiato. “Il popolo kurdo è sempre stato aperto, accogliente. Non vorrei che perdesse le sue qualità. Il progresso – conclude – è accettare tutte le identità, perché noi sappiamo appartenere a molti popoli”. “Io per esempio mi sento curda, italiana, turca, europea: che senso ha parlare di Stato nazione?”.
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