Cizre come Gaza, Cizre come Kobane: le telecamere entrano nella città kurda dopo tre mesi di coprifuoco e le immagini che portano indietro sono le stesse. L’identica devastazione provocata dalle brutalità dello Stato Islamico a Rojava, un livello di distruzione drammaticamente simile a quello lasciato dai caccia israeliani nella Striscia.
Cizre, ad un passo da Siria e Iraq, lungo il fiume Tigri, era già abitata nella prima età del ferro. In quell’età ci si è rituffata, ma stavolta il ferro era quello dei carri armati turchi. Sono centinaia i civili uccisi da quella che per Ankara è un’operazione anti-terrorismo, ma che i kurdi chiamano punizione collettiva. Man mano che i residenti tornano, dopo la fuga dalla violenta campagna militare, si trovano di fronte case e negozi demoliti, strade divelte, palazzi ripiegati su se stessi. E cadaveri nei sotterranei.
Qui i numeri sono volaliti come il valore della vita deciso nelle stanze del governo ad Ankara: l’esercito turco parla di 659 combattenti del Pkk uccisi. Dal conto mancano le vittime civili: 263 accertate, di cui 171 massacrati dall’artiglieria mentre erano bloccati in sotterranei-rifugio. Stragi che Cizre ha condiviso con il resto del sud est a maggioranza kurda, Sur, Mardin, Silopi, Sirnak.
La dura repressione di Stato è cominciata a fine luglio, dopo l’attentato che a Suruc uccise 33 giovani diretti a Kobane. Con una sapiente giravolta, il presidente Erdogan ha usato quell’eccidio per una campagna anti-terrorismo che avrebbe dovuto colpire l’Isis in Siria e invece ha avuto come target il Pkk e il Pyd siriano.
I coprifuoco si sono estesi a tutti i distretti kurdo-turchi, diventando pressoché ininterrotti a metà dicembre. Quello di Cizre è iniziato il 13 dicembre. L’11 febbraio Ankara ha annunciato la fine delle operazioni, sullo stile della “mission accomplished” del presidente Bush a bordo della portaerei Lincoln. E infatti le operazioni non sono affatto finite: solo ieri è stata dichiarata la fine del coprifuoco diurno; resterà attivo di notte, dalle 19.30 alle 5.
La semi-riapertura della città ha permesso il ritorno di migliaia di famiglie. Tornano alla spicciolata, chi in auto, chi a piedi, avvolte dal fumo che si solleva dalle macerie, costrette a incedere tra rovine e resti di barricate e trincee, poste a difesa di Cizre dai combattenti del Pkk e dai civili. Un estremo tentativo di resistenza, come gli scontri a fuoco che hanno segnato gli ultimi mesi. «Chi ha fatto questo non è umano – dice Seif Ozem, residente di Cizre all’Ap – È una seconda Kobane in un paese che dovrebbe essere una democrazia».
Il governo promette di ricostruire ma non ammetterà cosa ha ordinato all’esercito di fare. Ieri il sito kurdo AnfEnglish denunciava il rifiuto del procuratore del distretto ad entrare in uno dei sotterranei dell’orrore, nel quartiere di Cudi.
Nulla cambia, invece, a Sur, antico distretto di Diyarbakir e patrimonio Unesco. Mercoledì la marcia di protesta indetta dal partito di opposizione Hdp si è concluso con la solita violenza della polizia: cannoni ad acqua e lacrimogeni. Una punizione collettiva che colpisce il sud della Turchia come il nord della Siria, unite non solo dall’identità kurda ma anche dalla strategia regionale del presidente Erdogan. Quando colpisce Cizre o Sur, Ankara punta a distruggere il movimento indipendentista kurdo e il progetto confederale democratico teorizzato dal Pkk e ormai realtà a Rojava.
A coprire i crimini turchi pensano gli alleati occidentali. Washington, seppure mantenga relazioni con le Ypg kurdo-siriane, ha approvato la vendita di bombe guidate per un valore totale di 680 milioni di dollari: «L’accordo è stato tempestivo perché siamo impegnati in una guerra asimmetrica e abbiamo bisogno di queste bombe», ha detto un funzionario militare turco al sito defensenews.com.
Ieri, però, la stampa si concentrava su altro: a Istanbul due donne sono state uccise dopo aver aperto il fuoco contro una stazione della polizia anti-sommossa nel quartiere di Bayrampasa. Le due – Berna Yilmaz e Cigdem Yahsi – hanno attaccato l’edificio con pistole e granate, hanno ferito due agenti e si sono poi rifugiate in un palazzo vicino, prima di venire freddate.
L’attacco sarebbe stato rivendicato dal Revolutionary People’s Liberation Party-Front, gruppo marxista-leninista nato nel 1978. La Yilmaz aveva trascorso 20 mesi in prigione per aver mostrato un cartello durante una manifestazione del 2011 a cui partecipò l’allora premier Erdogan. C’era scritto “Vogliamo un’educazione libera e l’avremo”.
In un video dell’attacco si vedono le due giovani che dalla strada aprono il fuoco dopo essere scese da un taxi. Una dinamica che fa sorgere dei dubbi: l’azione non sembra ben organizzata (come i precedenti attacchi del gruppo), ma quasi improvvisata.
di Chiara Cruciati
Il Manifesto