Non diciamolo neanche: “Il problema della libertà delle donne, è solo un problema di donne”. Non guardiamo alla questione biologicamente, su un piano sessista. La democrazia e la libertà sono questioni sociali, tuttavia sono questioni che solo l’acquisizione della libertà delle donne può garantire.
Mizgin Zedan, vice-presidente dell’Iniziativa per le donne siriane
Guardandomi attorno nella penombra della sala, ho visto lacrime di commozione raccogliersi negli occhi delle donne, e brillare, illuminate dalla luce in movimento dello schermo. Donne fiere e riconoscenti perché, in una terra non troppo lontana, altre compagne stanno scrivendo un capitolo della storia umana e femminile, dimostrando al mondo intero la forza e le risorse del secondo sesso. Che secondo più non è, e mai è stato. Al Terra di Tutti Film Festival venivano proiettate le immagini de La guerre des filles (Girl’s war), ultimo documentario di Mylene Sauloy.
La guerre des filles
Siamo nel Rojava, il Kurdistan siriano. Un gruppo di donne in abito militare si fa strada tra le macerie e supera l’ingresso buio di un edificio fatiscente. Lì dentro, fino a poco tempo fa, c’erano gli uomini di Daesh, prima ancora i soldati di Assad. Oggi questo territorio è libero e riscattato grazie a loro che lo calpestano: sono le guerrigliere dello YPJ, l’Unità di protezione delle donne, il braccio armato del Pyd(Partito dell’unità democratica). Le donne curde sono le protagoniste di questa rivoluzione, la rivoluzione del Rojava, così come del documentario della Sauloy. Tra filmati d’archivio, testimonianze e fotografie, in meno di un’ora questo lavoro offre un quadro chiaro di — quasi — tutte le unità armate femminili presenti nel Kurdistan, attraverso una prospettiva storica del processo di emancipazione della donna. Perché se queste guerrigliere oggi imbracciano le armi e coordinano un sistema di difesa autonomo, se possono gridare “Women, life, freedom!”, lo devono alle pioniere che hanno aperto loro la strada.
Il movimento di liberazione femminile in Kurdistan
Sakine Cansız era tra queste. Originaria della provincia di Dersim, nel Kurdistan turco, Sakine è stata assassinata il 9 gennaio del 2013, nella Parigi simbolo della rivoluzione e della resistenza, dove ogni anno migliaia di femministe da tutta Europa si ritrovano per sfilare in un lunghissimo corteo commemorativo. Per i curdi è stata sia una delle fondatrici del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) nel 1978, sia unsimbolo del movimento femminista nato in Kurdistan in quegli anni. Che fosse nata a Dersim, culla della religione alevita e della parità di genere, non è un caso, come sottolineano diverse compagne intervistate da Sauloy. Lì, dove nel 1938 l’esercito turco lanciava una missione di civilizzazione del territorio, secondo i dettami del grande padre Ataturk — che non riconosceva né curdi, né aleviti —, massacrando e sterminando un popolo intero.
E mentre gli uomini rispondevano alla repressione sottomettendosi al potere dello Stato, soffocando la propria identità, le donne continuavano a tramandare le tradizioni e la lingua curda ai propri figli. Sakine era figlia di quella generazione di madri che fecero di lei una rivoluzionaria: prima in lotta contro gli stessi curdi reazionari, poi contro la violenza brutale dello Stato, infine contro le milizie armate di Al-Nusra e Daesh. Continuamente e sempre contro il sistema patriarcale e sessista. Incarcerata a Diyarbakir e sottoposta a torture disumane, ne uscì viva con una promessa: armare ogni singola compagna, in autonoma difesa di tutte le donne. Il processo durò dieci anni: nel 1993 le prima unità di donne libere “Botan”; l’8 marzo del 1995 il primo congresso femminile e il riconoscimento da parte del leader del PKK, Abdullah Öcalan, di un’armata di sole donne; il secondo congresso del 1999, la consegna di Öcalan alla Turchia e i primi partiti femministi (PJKK, il PJA, YJA Star, PAJK, KJB e KJK). Fu a questo punto che Sakine (nome di battaglia Sara) e la sua armata si spostarono dalla Turchia al nord dell’Iraq, sulle montagne del Qandil. Ora lei non c’è più ma la lotta continua. “La donna deve essere padrona di se stessa”, diceva Öcalan, e così è stato.
Siamo le ribelli della montagna
Sulle montagne del Qandil non c’è bisogno di nessun uomo. Le donne vengono addestrate militarmente e istruite, imparano ad amministrare se stesse, studiano sui libri di Chomsky e sui volumi dell’anarchico Bookchin. Per una libertà “democratica, ecologica e di genere”. Imparano a combattere per difendere se stesse e tutte le donne, come è accaduto con le yazide del Sinjar iracheno nel 2014, popolazione contro la quale Daesh ha messo in atto un vero e proprio genocidio. Oggi molte di queste donne yazide sono riuscite a scappare grazie all’aiuto dell’armata femmista e si rifugiano nel campo di Newroz, in Siria.
La rivoluzione del Rojava è la rivoluzione delle donne
Mylene Sauloy ritorna così nel Rojava, oggi “alba della libertà delle donne”. Prima di arrivare alla rivoluzione, i curdi in Siria sono rimasti sottomessi per decenni, senza mai ribellarsi al regime in maniera aperta. Mentre Hafiz al-Assad abbandonava la regione alla povertà e alla miseria, costringendola ad essere dipendente dallo Stato centrale, sicurezza e libertà di culto erano garantite sotto ricatto. Finché il popolo curdo non si fosse dedicato alla politica o non avesse interferito con i piani della classe dirigente, la calma rimaneva apparente. Poi, il 12 marzo del 2004 qualcosa si ruppe, le cose cambiarono. La rivolta di Qamishlo risvegliò le coscienze e il conseguente massacro del popolo curdo per opera del regime siriano rinsaldò le formazioni politiche e militari. In meno di dieci anni, sotto l’ombra scura dell’attuale Presidente alawita Bashar al-Assad, il Rojava divenne infine maturo e pronto per la rivoluzione. Dalla notte del 19 luglio 2012, da Kobane a Jazira, in un assedio durato tre giorni, i curdi riuscirono finalmente a sovvertire l’ordine di un potere che li stava violentemente reprimendo. E nel settembre del 2013, a Sherawa (tra Afrin e Aleppo), nasceva il primo battaglione di donne del Rojava, il battaglione martire Ruken.
Nel volto della martire Sakine, nei lunghi capelli neri e nei sorrisi delle combattenti de La guerre des filles risiede la speranza di ogni donna che qui, in una terra non troppo lontana, le osserva semplicemente dallo schermo di un cinema ma ora sa che un cambiamento è possibile.
Per tenersi informati: il documentario La guerre des filles | Retekurdistan.it | UIKI Onlus | Da Kobane a noi | il saggio La rivoluzione del Rojava (Arzu Demir, 2016/Red Star Press)
di Roberta Cristofori
@billybobatorton