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Rassegna Stampa

Repressi due volte, la polizia carica i curdi rifugiati politici

Il presidio. Manifestazione #ErdoganNotWelcome a Roma: gli agenti anti-sommossa circondano la piazza, manifestanti tenuti prigionieri per quattro ore. Si replica il 17 febbraio con un corteo nazionale.

Rodi ha poco più di trent’anni, di cui gli ultimi 17 trascorsi in Italia. È arrivato che ne aveva 16, mandato dalla famiglia che sperava così di salvarlo dalla repressione nel Kurdistan turco. Il padre prigioniero politico, uno zio e due cugini uccisi dalla gendarmeria turca, dal 2001 non mette in piede nel Bakur, a casa sua, e non vede la sua famiglia.

«Alla fine degli anni Novanta – ci dice – lo Stato turco compiva veri e propri raid nelle città curde, arrestando i più giovani. La scelta era tra rimanere e rischiare la vita, finire in carcere oppure fuggire in montagna. Ma anche lì Ankara colpiva: tagliavano gli alberi, dicevano che ogni albero nascondeva un combattente».

Erano questi i curdi che ieri manifestavano nei Giardini di Castel Sant’Angelo contro la visita del presidente turco Erdogan alle massime cariche dello Stato e a papa Francesco. Rifugiati politici nel nostro paese dalla fine degli anni ’90, gli anni precedenti e immediatamente successivi all’arrivo del leader del Pkk Ocalan, poi costretto da Roma alla fuga in Kenya dove i servizi turchi lo prelevarono per rinchiuderlo nell’isola-prigione di Imrali.

Mentre Erdogan visitava il Vaticano, raggiunto con un corteo di auto blindate, 50 uomini di scorta, teste di cuoio e un Cat con cannoncino, a poca distanza 300 persone gridavano sdegno per la scelta italiana di ospitarlo mentre Afrin è sotto le bombe. Discorsi, bandiere delle unità di difesa Ypg/Ypj, del Pkk e di ‘Apo’ Ocalan, balli e slogan. Fino alla carica della polizia: i manifestanti si sono spostati verso Castel Sant’Angelo, intenzionati a passare.

Alcuni sono riusciti a sfondare il cordone di agenti in tenuta antisommossa – presenti in gran numero con cellulari e cavalli – che hanno respinto il corteo e picchiato con i manganelli. Un uomo di 50 anni è stato ferito seriamente alla testa, mentre un giovane curdo veniva fermato e portato in questura a Via Nazionale.

Alle 14 la polizia ha completamente sigillato la piccola piazza e imprigionato una cinquantina di manifestanti. «Vergogna, ci tenere in ostaggio», hanno gridato. Per uscire dalla piazza, dicono, vogliono i nostri documenti.

Identificazione sul posto e una nuova carica: una ragazza è stata colpita mentre chiedeva ad un agente di togliersi la visiera. «Siamo prigionieri a Castel Sant’Angelo – protestava il portavoce di Rete Kurdistan, Alessio Arconzo – La polizia ci impedisce di muoverci e ci ha circondato vietandoci di manifestare con le bandiere, pena l’arresto». Fuori dal cordone altri manifestanti arrivavano in soccorso, lanciando bottiglie d’acqua e pacchetti di patatine a quelli bloccati nella piazza per quattro ore. Sono stati rilasciati alle 18, con un bilancio finale di due fermati e 18 identificati.

«Questo presidio serve a mandare un messaggio: non si possono stringere le mani di un dittatore che uccide e nega tutti i diritti umani, che bombarda i civili, che non riconosce nessuna identità – ci diceva poco prima Ozlem Tanrikulu, presidentessa di Uiki, l’Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia – La Turchia non è un paese democratico. Le imprese italiane [Erdogan ne ha incontrate alcune nella serata di ieri, ndr] devono sapere che questa guerra serve ad Erdogan per rafforzarsi, lo stanno aiutando ad armarsi e ad accaparrarsi nuovi strumenti per continuare il conflitto. Faccio un appello agli imprenditori italiani che lo incontreranno: non dimenticate che state usando il sangue di un popolo».

Di richiami al cantone curdo siriano la piazza risuona. Già sabato a Porta Maggiore era apparso un lungo murales, «Erdogan boia, Defend Afrin», mentre in contemporanea al presidio romano manifestanti scendevano nelle strade di Venezia (con la Basilica di San Marco trasformata in tela per striscioni a difesa delle Ypg/Ypj), a Napoli (anche qui uno striscione esposto dal terrazzo della Camera di Commercio «occupata»), a Massa, a Torino.

«Questo incontro è una vergogna per lo Stato italiano e il Vaticano – dice Rodi – Erdogan è qui per incassare la copertura necessaria ad agire. Ha dato vita ad una dittatura neo-ottomana, ha riportato la Turchia indietro di secoli, e ora cerca approvazione. Crollava nei consensi e allora ha optato per il caos: prima la guerra ai curdi in Turchia, gli arresti di deputati dell’Hdp, giornalisti, studenti; e ora Afrin. Un attacco che non è solo fisico, ma culturale. A noi curdi non interessa avere voce nel parlamento italiano, se questo accoglie il ’sultano’. Scegliamo la piazza».

E in piazza si tornerà il 17 febbraio, annuncia Rete Kurdistan, per un corteo nazionale che chiederà la liberazione di Ocalan e delle migliaia di prigionieri politici in Turchia.

Altro appuntamento, stavolta in Francia, è quello con Giuristi Democratici, ieri presenti in piazza in prima fila con un lungo striscione: «Il 15 e 16 marzo a Parigi si terrà la sessione del Tribunale internazionale su Turchia e Kurdistan e noi ci saremo – ci spiega l’avvocato Cesare Antetomaso – Si parlerà della repressione fuori e dentro i confini turchi. Siamo da tempo osservatori nei processi che vedono imputati avvocati turchi e curdi. La situazione è surreale: l’identificazione tra difensore e difeso, tipica di ogni dittatura».

 

di Chiara Cruciati

 

Il Manifesto

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