Studenti a Istanbul hanno protestato contro la guerra di Erdogan in Siria. Ora vengono perseguiti come »terroristi«. Un colloquio con Ekin Kaan- Ekin Kaan studia fisica all’Università Bogazici di Istanbul
Il 19 marzo i nazionalisti turchi hanno festeggiato l’occupazione del cantone di Afrin nel nord della Siria a maggioranza curda all’Università Bogazici di Istanbul. A alcuni studenti ha dato fastidio. Poi cosa è successo?
Quel giorno ero all’università per discutere con il mio tutor alcuni progetti accademici ai quali stavo lavorando. Per il giorno dopo era previsto un viaggio in Iran. Poi vidi alcune persone che distribuivano dolciumi turchi per festeggiare l’invasione di Afrin. Pensai che non si dovrebbe ammettere che un massacro del genere qui venga perfino glorificato. Incontrai alcuni amici, parlai con loro e decidemmo di organizzare una contromanifestazione. Tutto fu molto spontaneo.
Abbiamo dipinto uno striscione e ci siamo messi vicino ai sostenitori della guerra. Erano 5, 6 persone, noi tra i 15 e i 20. Abbiamo gridato slogan e informato gli studenti delle ragioni della nostra protesta. Ci sono stati alcuni scontri minori, un paio di calci, un po’ di spintonamento. È arrivato il servizio di sicurezza dell’università, anche un paio di poliziotti in borghese, dopo un’ora entrambi i gruppi si sono sciolti. Non c’è neanche stata una grande tensione.
Tuttavia il governo turco poco dopo ha avviato una campagna e diffamato gli studenti partecipanti al contro-presidio come »terroristi«.
È stata un’azione davvero piccola. Nonostante questo i mass media e troll dei social media hanno immediatamente avviato una campagna. Non pensavano che tutto questo avrebbe avuto tanta risonanza. Ma Erdogan aveva comunque nel mirino l’Università Bogazici. Il partito di governo AKP ha sottomesso quasi tutte le istituzioni del Paese, con poche eccezioni – tra cui appunto anche l’università di Istanbul. È rimasta uno dei pochi luoghi nei quali ci si poteva esprimere liberamente.
Come sempre i commenti di Erdogan sul nostro caso hanno chiamato in causa polizia e giustizia che considerano le sue parole come un ordine. Le autorità hanno perquisito abitazioni di studenti, fatto accertamenti di identità nell’area dell’università. Inizialmente sono stati arrestati 23 studenti, sette un giorno dopo la manifestazione sono stati rilasciati. Degli altri 16, dieci sono rimasti agli arresti. Sono accusati di avere una »relazione organizzativa con l’organizzazione terroristica« e di svolgere »propaganda del PKK«. Quando si sono verificate queste retate ero già in Iran. Anche casa mia a Istanbul è stata perquisita, quindi ho dovuto prolungare la mia gita che doveva essere breve.
Prima di questo evento era attivo politicamente? E cosa pensa della guerra a Afrin?
Sono attivo politicamente da circa dieci anni. Ho partecipato a manifestazioni, anche se non ce n’erano poi più così tante da quando la polizia di continuo arresta, ferisce o addirittura uccide persone. La maggior parte del tempo la passavo studiano in biblioteca.
Negli ultimi anni abbiamo potuto osservare una svolta netta nella politica turca – soprattutto nei confronti dei curdi. Prima è iniziato con i massacri nelle città curde della Turchia [negli anni 2015/2016, NdR]. Migliaia di persone sono state uccise. Poi la Turchia ha attaccato Afrin, uno dei pochi luoghi della Siria nei quali c’era la pace. Dato che la situazione politica in Turchia è così brutta, Afrin e il Rojava sono diventati la nostra speranza.
Dall’esterno sembra che una maggioranza dei cittadini in Turchia approvano il corso di guerra dell’AKP. È così?
È davvero difficile dirlo. Io penso che davvero molti – tra cui anche persone che sono contro Erdogan – sostengono questo corso. All’Università Bogazici forse per via della sua cultura liberale di lungo corso non è così, ma in generale la maggioranza della popolazione sostiene la guerra. Il nazionalismo è molto profondamente radicato in Turchia.
Lei ha lasciato la Turchia. Che piani ha ora? Come vede il suo futuro?
Volevo evitare di essere arrestato. Ho sempre messo in conto il rischio di un arresto o di qualcosa di peggio, ma non torno in Turchia e mi arrendo. Voglio cercare di continuare la lotta, dovunque mi dovessi trovare.
Per la Turchia, a essere sincero, non vedo speranza in un futuro prossimo. Alla fine gli oppressori perderanno, in un modo o nell’altro. Ma a breve termine non vedo una soluzione.
Intervista: Peter Schaber