Il 29 giugno saranno tredici anni dall’improvvisa scomparsa di Orhan Doğan: un compagno curdo che conoscemmo bene, mia moglie Silvana Barbieri e io, al processo a carico suo e di Leyla Zana, Hatip Dicle, Selim Sadak che si tenne ad Ankara dal marzo del 2003 all’aprile del 2004, quattordici udienze consecutive a un mese di distanza l’una dall’altra.
Orhan Doğan era nato il 27 luglio del 1955 a Mardin, città del sud-est curdo della Turchia, in una famiglia di ceto medio. Si legherà giovane al movimento curdo rivendicante diritti linguistici mai riconosciuti dallo stato kemalista e post-kemalista, ciò che in molti momenti della storia della Turchia moderna aveva portato a rivolte di popolo e a terribili repressioni. E’ noto nel mondo il genocidio armeno, grazie al fatto che lo stato armeno attuale, ex parte dell’Unione Sovietica, e le comunità armene sparse per il mondo ne hanno tenuta viva la memoria, e con essa la rivendicazione del riconoscimento del crimine da parte dello stato turco, ovviamente sempre rifiutato; ma al milione e mezzo dei morti armeni, quasi tutta una popolazione, uomini e donne, anziani, adulti e bambini, si unirono vittime di altrettanti stragi più o meno nel medesimo periodo, a cavallo cioè della prima guerra mondiale, il genocidio di 300 mila assiro-caldei, popolazione anch’essa cristiana e di lingua neo-aramaica, e il genocidio (uno dei tanti nel Novecento) di un milione e mezzo di curdi.
Non si capisce che cosa sia intimamente, antropologicamente, la Turchia nei suoi poteri, che cosa sia il suo stato, siano le sue forze armate, sia la sua polizia, siano i suoi servizi di sicurezza, siano i suoi tribunali, e cioè un immenso lager genocidario, se non si conosce questa storia. Non si capisce da dove venga il pazzo criminale Erdoğan. Non si capisce come si sia reso possibile che nei mesi scorsi 25 città curde siano state messe sotto assedio e distrutte con bombardamenti durati settimane da parte di aerei, artiglieria, carri armati, a seguito dell’aver tentato una democratizzazione delle forme della gestione amministrativa, e lo stesso sia accaduto al centro storico di Diyarbakır, storica capitale culturale curda. Non si capisce come si sia reso possibile che le manifestazioni sindacali del 1° maggio e quelle femminili dell’8 Marzo vengano sempre represse dalla polizia con l’uso di idranti e cani lupo e quelle del Newroz (il capodanno curdo) abbiano medesima sorte se non peggiore. Non si capisce perché metà della popolazione parlante turco viva nel terrore che di notte arrivino a casa le squadracce del partito AKP di Erdoğan e ammazzino freddo un uomo o un ragazzo o arrestino una donna che poi verrà violentata. Esattamente se non peggio di come faceva la Gestapo.
Non si capisce come mai il PKK del compagno Öcalan abbia ripreso ad aprile la lotta armata contro l’occupante turco e le sue forze armate e di polizia richiamandosi al diritto dei popoli, iscritto nella carta dell’ONU e nelle Costituzioni degli Stati Uniti e della Francia, a ribellarsi con tutti i mezzi necessari agli oppressori. Qualsiasi popolazione europea reagirebbe con la rivolta armata contro poteri nazionali od occupanti stranieri che la trattassero come la Turchia tratta da oltre un secolo a questa parte i curdi.
La speranza di una nuova Turchia civile non è affidata, come ciarla da sempre il cinico politicantume europeo, a “trattative”, a “discussioni”, relative a quella bufala assoluta, dato anche il razzismo anti-islamico che si aggira e cresce in Europa, che sarebbe la possibilità di un’entrata della Turchia nell’Unione Europea: ma è affidata ai combattenti del PKK, fratelli e sorelle di quelle milizie curdo-siriane che combattono contro Daesh a nome di obiettivi socialisti, democratici ed egualitari; ai compagni, come Orhan Doğan, partecipi delle organizzazioni curde legali (oggetto tuttavia di periodiche furibonde repressioni); a quella metà della popolazione turca che (fatto questo relativamente nuovo, e di grande significato) da una decina di anni a questa parte ha cominciato a pensare, ad abbandonare lo sciovinismo razzista che le hanno insegnato a scuola, a ribellarsi. Oggi, anzi, è la maggioranza della popolazione urbana.
Libertà per Öcalan! Trattative serie in Turchia sonno controllo internazionale! Via il PKK, e via il PYD curdo-siriano, dall’elenco delle organizzazioni terroriste fabbricato negli Stati Uniti nel 2001 dopo l’attentato alle torri gemelle e adottato senza batter ciglio dall’Unione Europea! Sì, il PYD è tuttora in quell’elenco, e guai a toglierlo, minaccia il governo turco.
Orhan Doğan, laureato in legge, dapprima lavorò ad Ankara al Direttorato della scuola primaria, poi, a seguito del colpo di stato militare di estrema destra razzista del 1980, andò a lavorare come avvocato nel distretto curdo di Cizre, nella provincia di Sirnak, per conto dell’Associazione per i diritti umani. Aderì inoltre ai partiti curdi legali che si succederanno via via (i partiti curdi legali sono stati tutti periodicamente perseguitati e sciolti dallo stato turco, sicché la loro ricostituzione ha dovuto sempre avvenire con un cambiamento di nome).
La sua casa e il suo ufficio subirono per tre volte attacchi con bombe e danni gravi da parte di squadracce fasciste legate ai militari e alla polizia. Nel 1991 l’avvocato e ormai dirigente del partito curdo legale di allora Orhan Doğan fu candidato alle elezioni dal partito curdo DEP e vi entrò assieme a ventuno altri suoi compagni, tra i quali, unica donna, e prima donna curda in assoluto, Leyla Zana. Nel marzo, se non ricordo male, del 1994 la polizia entrò armata nell’aula della Grande Assemblea (il parlamento della Turchia) e arrestò otto deputati curdi, tra cui Orhan Doğan. Il reato di “oltraggio all’identità turca” che a suo tempo era stato loro contestato era di aver giurato, secondo norma costituzionale turca, la propria fedeltà allo stato, ma di averlo fatto non solo in lingua turca ma anche, subito dopo, in lingua curda, inoltre di aver sostenuto che loro intenzione erano il riconoscimento dei diritti culturali della popolazione curda e la fraternizzazione tra curdi e turchi; e il nuovo reato che ora veniva a giustificare gli arresti era di appartenenza al PKK (attivo militarmente dal 1984). Il processo comincerà a dicembre e si concluderà a marzo con sette condanne, tra cui quattro a morte, poi convertite a quindici anni, a carico di Hatip Dicle, Orhan Doğan, Selim Sadak, Leyla Zana.
Gli avvocati dei quattro compagni fecero ricorso al Tribunale di Strasburgo, struttura cui fa capo la totalità degli stati europei, contro questa condanna. Esso condannò la Turchia alla rieffettuazione del processo o alla loro scarcerazione, data l’evidente tendenziosità della condanna, dato cioè il fatto che le indagini e il processo non avevano dimostrato niente. Inusualmente la Turchia, pluri condannata per la continua reiterazione delle sue violazioni delle norme definite dal Consiglio d’Europa, struttura collegata al Tribunale di Strasburgo, accettò il rifacimento del processo.Il Parlamento Europeo si svegliò nell’occasione dal suo torpore abituale e creò una propria commissione ad hoc il cui compito era il monitoraggio del nuovo processo. Io ne feci parte assieme a vari altri colleghi parlamentari tra cui la compagna Feleknas Yuksel, tedesca di origine curda yazida, rientrata da qualche anno in Turchia e attualmente parlamentare eletta nelle liste dell’HDP. Giova indicare il motivo fondamentale del risveglio del Parlamento Europeo: il fatto che esso aveva consegnato a Leyla Zana, nel dicembre del 1996, il Premio Zacharov per i diritti umani. Se non ci fosse stato questo fatto a parer mio non sarebbe stata possibile nessuna commissione ad hoc, data la reiterazione dell’accusa ai quattro compagni di terrorismo. Ma la consegna del Premio Zacharov significava che l’accusa di terrorismo non poteva che essere infondata: un parlamento non sbaglia mai!
Il monitoraggio del processo ebbe effetti direi decisivi. Catturò l’attenzione dei media turchi e vi aprì una discussione. Incoraggiò l’elemento democratico (non molto abbondante allora) della popolazione e dell’intellighenzia turche. Catturò per un anno e mezzo anche l’attenzione del Parlamento Europeo. Ovviamente il processo fu una farsa e il ribadimento della condanna a 15 anni di carcere (nel frattempo gli imputati ne avevano subito qualcosa più di una diecina) talmente ridicolo e ignobile nelle motivazioni da far infuriare una larghissima maggioranza di parlamentari europei; il dibattito in aula si concluse quindi con un voto di condanna durissima alla Turchia addirittura all’unanimità. Il governo turco, già in mano a Erdoğan, ma ancora debole, prese atto della cosa, e scarcerò a luglio i quattro compagni. Una vittoria che creò speranze nella popolazione curda e nelle componenti democratiche turche, purtroppo proressivamente vanificate nel modo peggiore.
Leyla Zana oggi è tornata parlamentare, eletta nelle liste dell’attuale partito curdo legale HDP. Selim Sadak è stato un anno in carcere e, a lungo, sindaco a momenti alterni della sua città Siirt, curda e araba, commissariata dal novembre scorso assieme alle città di Van e Mardin. Hatip Dicle, anch’egli parlamentare, è andato a più riprese in carcere e vi è tuttora. Nel frattempo si è avvicendata loro una nuova generazione di dirigenti curdi, alla quale pure si sono aperte le porte del carcere. Tra gli incarcerati sono i due copresidenti dell’HDP Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ (rispettivamente, come da regola di tutte le organizzazioni curde legali e illegali, un uomo e una donna), più un’altra quindicina di parlamentari. Rischiano tutti la condanna a vita per terrorismo.
Un breve ricordo anche di un incontro con Demirtaş, avvenuto nel 2003 a Diyarbakır. Ero insieme a mia moglie, a Emilio Molinari e a sua moglie Tina Mastrolonardo. Demirtaş, allora sui trent’anni, in quel momento presidente dell’associazione per i diritti umani IHD, ci ricevette nei suoi locali e ci portò a discutere in una grande stanza rettangolare, alle cui pareti era una fila di ritratti di uomini, una trentina o quarantina; e alla domanda di chi essi fossero rispose che erano stati tutti militanti dell’associazione o del partito curdo legale o di altre realtà democratiche assassinati dalla polizia o da squadracce al servizio della polizia oppure erano desaparecidos dei cui resti si ignorava il luogo.
Se Orhan Doğan fosse vivo sarebbe probabilmente parlamentare e al tempo stesso in carcere. Al processo colpivano i suoi interventi intelligenti e al tempo stesso arguti e del tutto privi di aggressività.
Fu ricorrente, in polemica indiretta all’arroganza, alla brutalità e alla faziosità dei giudici, un suo aneddoto, riguardante un cuoco italiano vissuto nel Cinquecento, tale Menaggio. Questi si interrogava ogni tanto sull’esistenza di Dio e cercava di capire di quali poteri egli eventualmente disponesse. Alcune persone lo accusarono di avere insultato Dio; Menaggio quindi fu processato e condannato a morte. I testimoni a carico erano stati pagati dalle autorità. Dopo l’esecuzione di Menaggio alcuni di essi dichiararono che la loro testimonianza era stata falsa. Poi Orhan Doğan faceva seguire un’analogia tra questa vicenda e l’andamento del processo: caratterizzato dal privilegio dei testimoni a carico, dal fatto evidente che molti di essi erano stati imbeccati, dal fatto che alcuni erano traditori curdi legati all’associazione terroristica armata al servizio dello stato Guardiani del villaggio, e parallelamente dal rifiuto del tribunale di accettare i testimoni a difesa, che avrebbero contestato l’esistenza di un rapporto tra gli imputati e il PKK..
Orhan Doğan è scomparso dieci anni fa, e, si può senz’altro sottolineare, lottando con i mezzi pacifici che gli erano connaturati. Era a Doğubeyazit, un villaggio dell’estremo sud-est turco caratterizzato da un imponente fortezza, a svolgervi un comizio, e fu colpito da un infarto; l’ambulanza impiegò quattro ore a raggiungerlo, fuori tempo massimo per salvarlo.
Luigi Vinci e Silvana Barbieri