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Rassegna Stampa

Liberare tutti? In Rojava i curdi ci stanno provando

E’ evidente che tra il ruolo di rivoluzionario e quello di carceriere, potendo scegliere, la gran parte dei militanti sani di mente sceglierebbe il primo. Purtroppo la Storia insegna che non sempre è andata così. Le derive autoritarie – o addirittura totalitarie – hanno marchiato anche le lotte di Liberazione. Lo ricordavano con amarezza sia Jean Ziegler in Le mani sull’Africa (“quest’uomo in lotta è un uomo di passaggio…” vedi a pag. 280, ed. del febbraio 1979) sia Victor Serge nella sua autobiografia (per inciso: uno dei grandi libri del secolo scorso, imperdibile).

Questo è quanto era avvenuto con la riapertura di carceri già zariste nella Russia bolscevica, con il rapimento e l’assassinio di comunisti libertari (Nin) e anarchici (Berneri) nel maggio ’37 a Barcellona o con l’assassinio del vicentino- scledense Blasco (chi scrive ha fatto in tempo a conoscerne la compagna, a Schio) in Francia durante la Resistenza. Ma pensiamo anche a quelle caricature di repressione statale che sono stati i soidisant tribunali del popolo di alcune organizzazioni rivoluzionarie (alcune vere, altre solo presunte) o l’uccisione di prigionieri (“ostaggi”) da parte delle medesime.

Ancora più evidente il fatto che ai partigiani curdi – rivoluzionari e libertari – la funzione di secondini andava stretta assai. Così come – a volte ritornano – andava stretta ai militanti della Colonna Durruti nella Guerra civile spagnola.

Coerentemente con i principi umanitari del Confederalismo democratico, i Curdi in Rojava avevano già abolito la pena di morte . Perfino per quei brutali tagliagole di Daesh/isis..

Non arriva quindi inaspettata la notizia che potrebbero tornare in libertà circa 25mila internati siriani (di cui 17mila minori) del campo di al-Hol (nel cantone di Hesekê). Seduta stante per amnistia generale. Un modo per alleggerire la situazione – divenuta soffocante, invivibile – del campo e dare una risposta positiva alle richieste delle comunità arabe locali. O almeno questa sarebbe l’intenzione, stando alle dichiarazioni di Elham Ahmad, esponente del Consiglio democratico siriano.

Hol è stato definito un “pesante fardello” per l’AANES (Amministrazione autonoma della Siria del Nord e dell’Est).

L’AANES, ha spiegato Elham Ahmad “non si sente obbligata a pagare ancora somme esorbitanti per fornire cibo e ogni cosa necessaria a queste persone”. Per non parlare dei gravi problemi che quotidianamente turbano la vita del campo. E non si parla di risse o litigi, ma di “stupri e uccisioni”.

Svuotarlo degli internati di cittadinanza siriana (rinviati per contingenti nei loro villaggi su richiesta delle autorità tribali dopo i recenti disordini scoppiati a Deir-ez-Zor) dovrebbe rendere il campo almeno vivibile. Inoltre non sarebbe più sotto la responsabilità dell’AANES e quelli che vi rimarranno saranno considerati detenuti a tutti gli effetti.

Al momento si tratterebbe di circa 30mila iracheni (tra cui 20mila minori) di cui il governo iracheno sembra volersi disinteressare totalmente (nonostante le richiesta dell’AANES di poterli rimpatriare) e altri diecimila stranieri di diverse nazionalità (tra cui 7mila minori).

Dato che la comunità internazionale va confermando il suo sostanziale disinteresse per la sorte di questi prigionieri (anche tra i membri di Daesh/Isis non mancano quelli con cittadinanza europea), recentemente l’AANES ha manifestato l’intenzione di processarli direttamente in proprio.

Come già riportato, tra omicidi e tentati omicidi (in genere all’arma bianca per mano delle donne dei mercenari di Daesh), stupri, incendi e abusi di ogni genere, la situazione nel campo era diventata insostenibile.

Un degrado ancora peggiore di quello generale, caratterizzato da sistematiche e molteplici violazioni dei diritti umani, operate praticamente da parte di tutti i soggetti coinvolti nel conflitto siriano.

Così almeno stabiliva un recente rapporto della Commissione internazionale indipendente di inchiesta sulla repubblica araba siriana. Rapporto che però accusava ingiustamente proprio le Forze democratiche siriane (FDS) per le lunga detenzione dei miliziani catturati, compresi quelli di Daesh. Non prendendo in considerazione il fatto che i loro governi mostravano chiaramente di non volerli rimpatriare.

Mazlum Abdi, comandante delle FDS, ha contestato alcune delle affermazioni contenute nel rapporto in quanto sembravano “ignorare la complessità di dimensioni internazionali del campo di Hol”. Un campo che al momento dell’inchiesta ospitava da parecchi mesi oltre 65mila persone “provenienti da decine di paesi differenti (oltre una cinquantina nda), tra cui migliaia di membri di Daesh e le loro famiglie catturati dalle FDS”.

Polemicamente vorrei qui ricordare il risalto dato dai siti filo-Assad (rosso-bruni, fascisti, neostalinisti…) agli scontri tra le YPG e le popolazioni arabe appoggiate da Damasco. Parlandone come di una rivolta popolare spontanea contro la prepotenza dei curdi e dei loro alleati. Ora si scoprono gli altarini: i tribali rivolevano soltanto indietro i loro compaesani arruolatisi – volontariamente o meno – nelle bande integraliste. Umanamente anche comprensibile (volerli riportare a casa intendo, non certo integrarsi in Daesh), ma politicamente alquanto discutibile.

Già in precedenza altri 4mila internati siriani avevano potuto lasciare il campo di Hol e quello di Deir-ez-Zor, dietro la garanzia – fornita sempre da sceicchi tribali – che non si sarebbero arruolati con Daesh.

Ma in buona sostanza, come era stato strutturato il campo di Hol?

Al-Hol è diviso in otto zone. Nella zona uno, due e tre si trovano persone di Mosul che avevano disertato da Daesh ancora nel 2014, mentre nella zona quattro sono stati raccolti soprattutto sfollati siriani.

Invece jihadisti e loro familiari sono rinchiusi nelle zone cinque, sei e sette.

Altri jihadisti – in particolare gli stranieri – nel Muhajarad (la zona dei “Migranti”).

Purtroppo nel campo si era ricostituita più o meno clandestinamente l’organizzazione del califfato. Soprattutto per opera delle donne impegnate sia nell’indottrinamento dei bambini, sia nell’esecuzione di chi vorrebbe tirarsi fuori (quelli definiti “rinnegati”).

Anche in questi giorni – la notizia è del 6 ottobre – alcune donne aderenti allo Stato Islamico hanno assassinato un rifugiato iracheno e tentato di assassinarne un altro, un barbiere (ma riuscendo, soltanto a ferirlo gravemente ).

Il gruppo si era organizzato come una vera e propria milizia per controllare, terrorizzandole, le persone rinchiuse nel campo.

A peggiorare ulteriormente la situazione, con l’invasione turca del 2019 i tentativi di evasione si sono moltiplicati. Almeno 700 (in buona parte riusciti) dall’anno scorso, secondo le forze di sicurezza presenti nel campo.

Gianni Sartori

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