Connect with us

Hi, what are you looking for?

Retekurdistan.it
Retekurdistan.itRetekurdistan.it

Opinioni e analisi

Un fiore mai sbocciato: riflessioni sulla sconfitta della rivoluzione siriana

Dieci anni fa, il 18 marzo 2011, il regime siriano faceva le prime due vittime, reprimendo le proteste nella città di Deraa: Hosam Ayyash e Mahmud al-Jawabreh. Difficile immaginare cosa quei due ragazzi si aspettassero per il proprio paese. È probabile che, qualunque futuro avessero in mente, fosse migliore di quello che non hanno potuto vedere. Noi che abbiamo saputo o visto, siriani e non – esseri umani – dobbiamo oggi chiederci perché le cose non sono andate come tante persone, che nel 2011 hanno dato la vita per la rivoluzione, avrebbero voluto. Con rivoluzione, tuttavia, non possiamo intendere l’insurrezione popolare, la rivolta o le manifestazioni. Rivoluzione è costruzione e difesa di istituzioni e norme nuove, che ribaltino almeno in parte le gerarchie e le relazioni tradizionali di potere.

Nuove istituzioni in Siria sono effettivamente nate, in alcuni luoghi, in questi dieci anni, ma non hanno in molti casi rovesciato, bensì rafforzato le gerarchie sociali esistenti; né sono state prodotte sempre per gli stessi valori e obiettivi che avevano ispirato la mobilitazione iniziale.

Che tipo di Siria immaginavano o desideravano Hosam Ayyash e Mahmud al-Jawabreh? Io non so dirlo: bisognerebbe raggiungere, a Deraa o altrove, i loro amici sopravvissuti e chiederlo – sperando che il tempo e la guerra permettano ai ricordi di rendere giustizia ai caduti. La sollevazione siriana era composta da milioni di individui. Cosa volevano? «La caduta del regime». Per sostituirlo con cosa? È questa la domanda difficile. Condividere il disprezzo per lo stato – tanto più in Siria – è ben possibile, ma concepire e organizzare una società in modo differente è tutt’altra cosa, anzitutto perché tutti vogliono cose diverse. Le rivoluzioni non sono affatto disegnate da una linea immaginaria tra interessi inconciliabili o, peggio ancora, tra società e potere, ma dalla linea che dentro la società divide progresso e regresso, passato e futuro, intelligenza e stupidità. La storia corre a cavallo di quella linea. I gruppi e gli attivisti anti-Assad più attivi formarono nel marzo 2011 comitati diffusi e caotici per potersi riunire e organizzare le proteste, ma anche assicurare supporto medico e legale a chi era colpito dalla repressione, informare su quel che accadeva e tentare di stabilire gli imprescindibili contatti e appoggi internazionali.

In quella rete di comitati una miriade di soggetti politici, come avviene sempre, si mosse per creare prospettiva e struttura. Il progetto più chiaramente progressista furono i Comitati di coordinamento locale (Lcc) fondati da una giovane avvocatessa, Razan Zaitouneh, e formati da attivisti ispirati da principi liberali, democratici o socialisti, che centravano la propria linea su un concetto comprensibile a tutti: diritti umani. Questa sinistra liberale o socialista siriana – giovane, colta e coraggiosa – esprimeva l’attivazione concreta, non di rado femminile, nelle proteste: l’impegno anima e corpo nel lavoro organizzativo e nella comunicazione, pagando subito un prezzo altissimo in termini repressivi.

Un tentativo diverso fu quello dell’Unione dei coordinatori della rivoluzione siriana, che tentò non senza tensioni di far convivere gruppi di destra (significato: desiderosi di rafforzare le gerarchie tradizionali) e di sinistra (che volevano metterle in discussione). La destra era rappresentata principalmente da un movimento ben noto alla storia siriana, i Fratelli musulmani, e dai loro simpatizzanti. Portavano in dote un certo consenso sociale e relazioni internazionali di grande peso, anzitutto con la confinante Turchia; il che significava – elemento assolutamente decisivo – un enorme capitale economico. La sinistra era invece formata da frammentate formazioni democratiche e liberali, unite da una prospettiva secolare.

Tentativi maggiormente d’impatto furono però la Commissione generale della rivoluzione siriana (fondata da personalità legate al panarabismo e, in passato, allo stesso partito Baath di Assad) e il Consiglio supremo della rivoluzione siriana. Queste realtà spinsero subito per un maggiore coordinamento con i Fratelli musulmani in Turchia e con le stesse autorità turche, sostenendo la scelta di queste ultime di offrire denaro e armi ai giovani più poveri delle campagne settentrionali per convincerli a entrare in bande armate. Il disegno di Erdogan era di provocare, con una guerra civile, un intervento “umanitario” della Nato. Esso avrebbe garantito di istaurare a Damasco un governo asservito ai disegni “neo-ottomani” della Turchia.

Soltanto un partito siriano d’opposizione di peso, in quella primavera del 2011, rifiutò di aderire ai comitati formatisi nei diversi territori e attraversati da questi vari coordinamenti. Era il partito curdo di unione democratica o Pyd. La cosa, all’epoca, apparve a molti sospetta, ma anche insignificante, perché questo gruppo aveva séguito soltanto tra la minoranza curda. Il Pyd chiamò tuttavia le proprie assemblee e, in quelle comunità, ebbero molto successo. Il fattore nazionale e linguistico fu importante, ma non spiega tutto. Partiti curdi di destra, orientati a un nazionalismo conservatore, aderirono ad esempio ai comitati dell’opposizione prevalente, ma con minor seguito. I rappresentanti dei consigli organizzati dal Pyd si coordinarono nel Movimento per la società democratica o Tev-Dem e fu in effetti la chiara cornice politico-programmatica del progetto che instillò fiducia nella gente, sensibile in Siria non meno che altrove al pericolo islamista. Nelle comunità arabe, non a caso – dove un’opposizione immune da quei legami non emerse – il regime ha mantenuto in tutti questi anni un (limitato ma persistente) seguito che sarebbe altrimenti inspiegabile.

Il legame di tutta l’opposizione con l’islamismo si rafforzò inesorabilmente nel 2012. La guerra civile fomentata dai Fratelli musulmani e da Erdogan era ormai in atto. Allora fu fondata in Qatar (l’altro centro propulsore della Fratellanza globale) la Coalizione nazionale siriana, che riuniva varie figure dell’opposizione sotto l’egemonia e la direzione del movimento islamista. Essa sosteneva attivamente l’azione, sempre più violenta e criminale, di bande di gangster e integralisti religiosi maldestramente chiamati “Esercito libero siriano”, schierati al fianco di Al-Qaeda e gruppi similari nel nord del paese. Questo sviluppo, si badi, era stato apertamente condannato fin dal luglio 2011 dagli Lcc di Razan Zaitouneh e compagni, vera sinistra della rivoluzione siriana. Nonostante la repressione selvaggia, avevano scritto dopo una sofferta discussione, la guerra non può essere una soluzione. Questa posizione non era molto diversa da quella del Pyd e del Tev-Dem, per i quali l’esclusione di un attacco militare contro il regime doveva però andare di pari passo con l’autodifesa, anche armata se necessario, delle comunità (contro qualunque attacco, governativo o di “opposizione”).

Il punto di non ritorno della rivoluzione si consumò nell’autunno del 2012. Gli Lcc decisero di aderire alla Coalizione filo-turca dei Fratelli musulmani. Soltanto poche settimane dopo si spaccarono sulla decisione di uscirne, sentendo molti di loro come intollerabile lo strapotere della destra islamista. Tuttavia in novembre la riconobbero pubblicamente come “legittimo rappresentante delle aspirazioni del popolo siriano”, mal consigliati dal medesimo riconoscimento offerto in quei giorni da Turchia, Qatar, Italia, Francia, Stati Uniti, Regno Unito. Questa scelta rese impossibile costruire una corrente di sinistra e progressista, unitaria e magari arabo-curda, nella rivoluzione siriana. I contatti degli Lcc in Rojava erano infatti mediati dalla regressiva destra curda che appoggiava la Coalizione, boicottando le comuni popolari e le “inconcepibili” co-presidenze che assicuravano una pari rappresentanza di genere.

Questo sviluppo nella politica degli Lcc era tanto più indigeribile se si pensa che soltanto tre mesi prima, nel luglio 2012, il Tev-Dem aveva preso il controllo militare di diverse città (Kobane e Afrin in primis) grazie alle nuove unità di difesa Ypg, costituendo un autogoverno fondato sul tentativo di coinvolgimento della popolazione in forme avanzatissime di democrazia diretta e organizzazione autonoma delle donne. La Coalizione che ormai, per gli Lcc, “rappresentava” la Siria attaccava con le sue milizie (che agivano non più al fianco, ma sotto la direzione di Al-Qaeda, detta in Siria allora Jabhat al-Nusra) le zone dell’autogoverno curdo (in particolare la città di Serekaniye o Ras al-Ain, dove tuttavia le Ypg ebbero la meglio). Un attacco brutale, contrassegnato da saccheggi di siti archeologici di rilevanza universale, e di cui, almeno politicamente, gli Lcc si erano resi complici.

Nelle zone dove gli Lcc rimanevano attivi le cose non andavano del resto molto meglio. I consigli cittadini con cui talvolta collaboravano, finanziati e sostenuti dalla Coalizione e dalla Turchia, si difendevano dagli attacchi del regime grazie a milizie islamiste sempre più estreme. Queste milizie usarono il monopolio militare così acquisito per auto-assegnarsi, con buona pace di comitati e consigli, funzioni giudiziarie e di polizia che avviarono la trasformazione della “rivoluzione” in reazione teocratica e rete di stati e staterelli islamici. La scelta non violenta dei progressisti rimasti in quei contesti li condannò all’irrilevanza o all’esilio, se non alla morte. Razan Zaitouneh scomparve nel 2013 dopo esser stata rapita da uomini armati nei pressi di Damasco, verosimilmente appartenenti alla milizia salafita Jaish al-Islam che controllava le periferie dove Razan era attiva. Proprio la sua militanza indipendente, democratica e femminile disturbava gli islamisti che, non avendo potuto piegarla ai loro voleri, la fecero sparire. Casi ben diversi e decisamente meno onorevoli videro attivisti della prima ora scegliere la complicità attiva con le fazioni più estreme dell’integralismo.

Quest’ultima, specifica evoluzione ha per forza di cose infangato la reputazione del corpo politico emerso dalla sollevazione siriana, anche nelle sue componenti migliori. Indubbiamente la scelta non violenta ha finito per lasciare libera una sola opzione di resistenza, quella offerta dagli islamisti. Bisogna ricordare d’altra parte che una scelta diversa non sarebbe stata facile per una realtà come gli Lcc: se il Pyd potè formare le leali e unitarie Ypg, contando su armi ed educazione militare indipendenti, è per le remote origini di questa possibilità nella storia rivoluzionaria di tutto il Kurdistan. Resta però il problema dell’indisponibilità dei militanti progressisti dell’opposizione siriana a percorrere una strada di dialogo e collaborazione con il movimento curdo, anche in fasi successive, quando peraltro migliaia di combattenti arabi anti-Assad, restituendo dignità persino ai colori del cosiddetto “Esercito libero”, l’avevano intrapresa nelle Forze siriane democratiche e nell’Amministrazione democratica del nord-est.

Molti che, a diverso titolo, si presentavano come legati almeno idealmente all’esperienza delle componenti liberali del 2011 non esitarono (e i loro simpatizzanti europei non esitano tuttora) ad esprimere giudizi ironici, sarcastici o liquidatori sull’esperienza del Rojava, quando non ad insultare apertamente le Ypg. Questo livore ha trovato espressione nella narrazione secondo cui la rivoluzione del Rojava è, in realtà, un inganno per queste ragioni: (1) si presenta come pluralista, ma commette addirittura pulizia etnica contro gli arabi; (2) si presenta come democratica, ma ha imposto una dittatura a partito unico; (3) collabora con il regime di Assad.

La prima di queste accuse, naturalmente la più infamante, è anche la più facile da smentire: evacuazioni a scopo militare (quindi per proteggere i civili in aree di operazione) in alcune aree (non solo arabe), o indifferibili misure repressive contro individui e famiglie complici dell’Isis o di altri gruppi jihadisti, non possono ricadere sotto quella categoria (che bisognerebbe fare molta attenzione a non abbassare ad usi strumentali). Tuttavia proprio la guerra e la conseguente repressione del nemico sono il problema che conduce al secondo punto. L’uso delle armi e l’imposizione di nuove cornici del lecito e dell’illecito da parte di un’organizzazione rivoluzionaria sono considerate “autoritarie” o, come si usa dire, “staliniste” da questi detrattori. Emerge qui il dogmatismo ottuso di una certa mentalità liberale, stavolta in senso regressivo. La rivoluzione non violenta e priva di autorità è tale quando viene sconfitta e quindi soltanto se non ha luogo. L’umanità ha però bisogno di soluzioni, non di paradossi. Se il passato deve passare – il regime, o quello ancora anteriore rimpianto dagli islamisti – bisogna vietarne almeno le espressioni più caratteristiche ed estreme. È quindi chiaro che nell’Amministrazione, per molte realtà conservatrici (il Baath stesso, i gruppi armati dalla Turchia, l’Isis e altri), l’agibilità politica è ridotta o annullata e chi organizza attacchi alle istituzioni rivoluzionarie viene arrestato.

Questo fatto, così come la presenza di migliaia di militanti ideologizzati, donne e uomini, a sostenere il lavoro delle istituzioni e delle comuni, non è un difetto della rivoluzione e non ha nulla a che fare con lo stalinismo, ma ne è il semplice presupposto. La frammentazione politica e la mancanza di organizzazione non è un valore nella lotta, così come non lo è lo scarso pragmatismo che nega la necessità della mediazione con l’avversario – incluso lo stato, in certe specifiche circostanze – o l’uso limitato e giustificato della forza. Ad essere contestate al Pyd o al Rojava, insomma, sono proprio quelle caratteristiche che hanno scongiurato a questa esperienza di patire le debolezze che hanno condotto altre esperienze a perdersi, e che hanno invece permesso all’Amministrazione del nord-est di realizzare almeno in parte, con milioni di siriani, i valori più avanzati espressi dalla sollevazione del 2011. Pur tra mille difficoltà e sconfitte, s’intende, è infatti, innegabilmente, l’unico e il solo esito positivo della tragedia siriana. A renderlo possibile non sono stati dei principi astratti, e neanche il popolo – differenziato e discorde come sempre, sia arabo che curdo. È stato quel partito; dalla cui saggezza e dai cui metodi si può sempre iniziare ad imparare.

di Davide Grasso

Sostieni UIKI Onlus

Sostieni
Ufficio di Informazione del Kurdistan In Italia Onlus
Codice Fiscale: 97165690583

IBAN: IBAN: IT89 F 02008 05209 000102651599
BIC/ SWIFT:UNCRITM1710

Potrebbero interessarti anche:

Opinioni e analisi

Un incisivo articolo di Joost Jongerden, docente presso l’Università di Wageningen pubblicato per la prima volta sulla piattaforma di discussione Joop del sito di...

Opinioni e analisi

Firmando il Trattato di Losanna nel 1923, la Turchia ha distrutto ogni speranza per i curdi del diritto all’autodeterminazione e alla creazione dello stato...

Opinioni e analisi

Il 15 febbraio scorso è caduto il ventiquattresimo anniversario della cattura di Abdullah Öcalan, teorico del Confederalismo democratico e fondatore del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), considerato da...

Opinioni e analisi

C’è un amore che potrebbe svanire, dal Corno d’Oro all’Anatolia profonda, quello fra l’uomo-Stato e padre della Patria ormai più musulmana che kemalista e...