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Interviste

«La via per la pace: Ocalan libero e Pkk fuori dalla black list»

Intervista a Ibrahim Bilmez, uno degli avvocati del leadr curdo in carcere su un’isola turca da 23 anni. Sabato i cortei in Italia: «Se il Pkk non fosse più considerato terrorista, si aprirebbe la strada a una soluzione democratica della questione curda con Ocalan come primo interlocutore»

Sono trascorsi 23 anni dal 15 febbraio 1999 quando i servizi segreti turchi – in un atto che sarà definito di pirateria internazionale – catturarono Abdullah Ocalan a Nairobi. Le immagini del fondatore e leader del Partito curdo dei lavoratori (Pkk) bendato e ammanettato fecero il giro del mondo. La Turchia lo condannò a morte, pena poi tramutata in ergastolo, e trasformò un’isola del mar di Marmara in una prigione per un uomo solo.

Come ogni anno in Italia si terranno manifestazioni per chiederne la liberazione, appuntamento il prossimo sabato alle 14.30 in piazza dell’Esquilino a Roma e alle 14 a Largo Cairoli a Milano. Oggi alla conferenza stampa alle 11 a Stampa Romana sarà presente anche Ibrahim Bilmez, membro del team legale di Ocalan.

Da quanto tempo non fate visita a Ocalan? La Turchia continua a rispedire al mittente le vostre richieste di incontro.

Non riusciamo ad avere notizie su di lui e sugli altri tre prigionieri detenuti sull’isola di Imrali. Le ultime risalgono al 20 marzo 2021, gli ultimi incontri fisici al 2019. Facciamo richiesta di visita due volte a settimana, sia per il team legale che per la famiglia. Non le accolgono mai. Prima del 2011, lo Stato prevedeva un incontro a settimana della durata di un’ora, il mercoledì. In media riuscivamo ad andare 20-25 volte l’anno, spesso ce lo impedivano citando le condizioni meteorologiche.

Dal 1999 al 2009 Ocalan era il solo detenuto nel carcere di Imrali, in isolamento totale. Poi, grazie alle pressioni delle opinioni pubbliche internazionali, la Turchia ha trasferito lì altri prigionieri del Pkk. Sull’isola non ci sono costruzioni civili, né case né villaggi. Già prima dell’arrivo di Ocalan era sede di un carcere «aperto», si vede nel film Yol di Yılmaz Güney: i prigionieri potevano uscire. Da 23 anni non è più così: nemmeno i pescatori possono avvicinarsi alle coste di Imrali.

Quando lo ha incontrato l’ultima volta?

Il 27 luglio 2011. Quell’anno siamo stati arrestati nella più vasta operazione contro degli avvocati in Turchia: 45 arresti, tra cui noi legali di Ocalan. Al processo si disse che dal 2004 al 2011 l’avevo incontrato 52 volte, come fosse prova di un reato. Con l’accusa di appartenenza a organizzazione terroristica e alla dirigenza del Pkk, siamo stati detenuti per due anni e mezzo. Il processo è ancora in corso, ma gli attori sono cambiati: procuratore, giudice, alcuni poliziotti coinvolti nelle indagini sono stati tutti arrestati per terrorismo con l’accusa di essere parte della rete dell’imam Gülen.

Ci può descrivere Imrali?

Per raggiungere Imrali partivamo dal porto di Gemlik, a Bursa, alle 5 del mattino. Imbarco alle 8. A Gemlik la gendarmeria procedeva alla prima perquisizione: in fila passavamo per il metal detector che suonava sempre. Ci spogliavano e in un stanza controllavano tutto il nostro corpo, anche nella bocca e nei capelli. Dicevano di cercare esplosivi ma è ovvio che volevano solo umiliarci. Salivamo su una piccola barca, la Imrali 9, per un viaggio di due ore. Sull’isola venivamo sottoposti ad altre due perquisizioni, una al porto e una a 200 metri di distanza, all’ingresso della prigione, nonostante fossimo stati sempre in compagnia dei gendarmi. Passati i controlli, attendevamo in una sala di circa 12 metri quadrati. Accanto c’era un’altra stanza, più o meno delle stesse dimensioni, il luogo dell’incontro. Al di là, c’era la cella di Ocalan.

In che condizioni vive Ocalan, almeno fino a quando avete potuto incontrarlo?

Dalla piccola finestra della stanza in cui si tenevano le visite, si poteva vedere lo spazio per l’ora d’aria, piccolo quanto la sua cella di 12 metri quadrati, con muri altissimi: si intravedeva solo il cielo, nient’altro. Una volta a Imrali andò un’avvocata e nella zona d’aria Ocalan raccolse un ciuffo d’erba che era cresciuto nel cemento. Glielo donò perché lo portasse alle compagne fuori. All’uscita i gendarmi glielo hanno confiscato. Fino al 2004 gli incontri con noi avvocati erano segreti. Poi hanno introdotto una legge che ha permesso allo Stato di essere presente con suoi rappresentanti. Stavano in mezzo a noi e registravano tutta la conversazione.

Prima di entrare ci avvisavano: non più di 60 minuti e nessun contatto fisico. Finché non sono arrivati altri prigionieri, per dieci anni, Ocalan non ha avuto contatti con nessuno se non con le guardie. Che avevano però l’ordine di non parlargli: per un decennio le uniche voci di un altro essere umano che sentiva erano le nostre. Nonostante ciò, l’ho visto poche volte di cattivo umore. Dopo pochi minuti dall’inizio dell’incontro, sembrava non stessimo più lì ma fossimo soli e liberi.

In questi 23 anni c’è stato anche un periodo di «apertura» dello Stato, con l’avvio del processo di pace guidato da Ocalan dal carcere. Cambiò qualcosa in quella fase?

Dopo il nostro arresto, si aprirono i negoziati. In quel periodo a incontrare Ocalan andava sia una delegazione dello Stato turco che una dell’allora Bdp (Peace and Democracy Party, antesignano dell’Hdp, ndr). Gli stessi prigionieri che erano stati condotti a Imrali, rompendo l’isolamento totale, erano quadri del Pkk che prendevano parte ai negoziati, una sorta di segreteria. All’epoca gli fecero avere anche una tv che prendeva solo i canali statali, non sappiamo se ce l’abbia ancora.

Ogni mese gli mandiamo libri, riviste e giornali, ma non sappiamo se e quando gli vengono sempre consegnati. Sappiamo però che se c’è pubblicato qualcosa relativo alla questione curda, lo tagliavano via con le forbici. Mantiene comunque una grande capacità di analisi politica e conosce molto bene la storia del Medio Oriente. Ricordo alcune sue previsioni che all’epoca ci sembravano impensabili ma poi accadevano davvero. Come il massacro a Shengal: aveva suggerito di prendere precauzioni a difesa degli ezidi già prima della guerra siriana.

La campagna per la liberazione di Ocalan si accompagna a quella per togliere il Pkk dalla lista dei gruppi terroristici. Due temi profondamente legati. È individuabile una priorità?

Come avvocati il nostro obiettivo è far liberare Ocalan e non possiamo prendere parte a campagne organizzate da altre realtà. Ma le sosteniamo con il nostro lavoro, fornendo informazioni e materiale. La campagna per cancellare il Pkk dalla black list è legata a quella per la liberazione di Ocalan. Se non fosse più considerato terrorista, si aprirebbe la strada a una soluzione pacifica della questione curda con Ocalan come primo interlocutore. Sono obiettivi che si nutrono a vicenda. Per questo l’opinione pubblica democratica europea è importante per entrambe le campagne. Anche per la Turchia Ocalan è una chance, lo è per lo Stato e per la società in generale, per giungere a una soluzione pacifica e democratica.

In Turchia esistono partiti, al di là dell’Hdp, propensi a un suo rilascio?

Dal 1999 e per tutta la durata del processo, all’opinione pubblica turca è stata imposta l’immagine di Ocalan come un mostro, la radice di ogni male. Questo ha creato un pregiudizio e portato a due estremi: i curdi lo vedono come un salvatore, mentre gran parte dell’opinione pubblica turca lo reputava il peggiore dei terroristi. Ma con il tempo, quando il suo pensiero nel periodo del processo di pace è arrivato alla società, questo pregiudizio ha iniziato a sgretolarsi e sono successe cose inimmaginabili. Un esempio: il discorso che inviò a un Newroz fu tramesso dai canali tv turchi senza che scoppiasse il finimondo. A quel punto la parte democratica della società turca, i partiti di sinistra ma anche socialdemocratici, hanno abbandonato quel pregiudizio. Si era anche iniziato a discutere di tramutare la pena in arresti domiciliari.

Il problema resta la propaganda nera dello Stato e l’uso che di Ocalan fanno i governi turchi: l’Akp (il partito di Erdogan, ndr) ha usato il processo di pace come strumento elettorale, come accaduto con il voto del giugno 2015, per mostrarsi come forza propulsiva di una soluzione. Poi però quando ha perso la maggioranza assoluta a causa del boom dell’Hdp, ha deciso di rovesciare il tavolo dei negoziati.

 

di Chiara Cruciati

Il Manifesto

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