Perché l’esperienza delle donne a Jinwar ci riguarda? Ne parliamo con l’esperta Fabiana Cioni, architetta, dottorata presso l’Istituto Universitario di architettura di Venezia IUAV con una tesi dal titolo Ricostruire con amore, un approccio auto-determinato dall’emergenza: confederalismo democratico in Kurdistan. Cioni si è occupata di raccontare storie e testimonianze dal Kurdistan anche attraverso la fotografia. Tra i suoi lavori più recenti, è stata autrice di un libro fotografico intitolato Verso l’Angelo Pavone. Frammenti dal Kurdistan – In viaggio con la comunità ezida. Diario per immagini da Şhengal e Lalişh in cui cattura la vita quotidiana della popolazione curda ezida con uno sguardo sensibile e al contempo crudo.
Nella veste di ricercatrice, Fabiana ci racconta la sua esperienza nel Rojava, precisamente nell’unico villaggio abitato da sole donne in Medio Oriente, Jinwar – il luogo dove vivono le donne – in kurmancî, fondato nel 2016 accanto Dirbêsiyê, città siriana situata al confine fra Turchia e Siria, in cui le donne sperimentano forme di organizzazione autonoma per autodeterminarsi. “La ricerca che ho portato avanti si è occupata dell’emergenza come condizione progettuale analizzando la lettura di tutto il processo di realizzazione del villaggio delle donne fino al momento in cui ci ho lavorato, cioè il 2019. Mi sono occupata di considerare tutti gli aspetti che sono stati portati avanti nel villaggio delle donne a partire dalla sua fondazione. Ho scelto di fare un focus di questo genere perché dal mio punto di vista l’atto fondativo di una città impone anche storicamente una serie di riflessioni preliminari, fra cui, la costruzione di Jinwar non rappresenta solo un processo di realizzazione fisica, ma anche un processo di identità̀”.
Per capire meglio questo processo Fabiana consiglia la lettura di Manuale per fondare una città del filosofo Pietro M. Toesca e chiarisce: “Fin dall’inizio, l’atto fondativo di Jinwar ha seguito l’approccio del nuovo paradigma sociopolitico di Abdullah Öcalan in cui si sollecita l’azione pratica di una vita libera insieme. Questa identità non è basata sulla chiusura, bensì ha un forte elemento collettivo e costituisce la base dell’atto fondativo di Jinwar”. Precisa: “Un esempio pratico è che nel villaggio sono stati piantati gli alberi prima di costruire le case”, definendo così la visione e sensibilità fondativa del villaggio e chi lo abita. L’ecologia sociale e la liberazione delle donne sono infatti due dei tre pilastri principali del confederalismo democratico insieme al principio di democrazia diretta, che all’interno di Jinwar vengono applicati nella quotidianità a partire dalla fondazione di una città.
Percepirsi organismo
Così il villaggio così le donne seguiranno dei principi, le chiedo: “Qual è stato il principio fondativo che hai identificato attraverso le donne che abitavano il villaggio?”
“Le donne all’interno di Jinwar hanno storie, culture e lingue diverse, forse uno dei pochi elementi che si possono ritrovare con maggiore frequenza, è la religione perché quasi tutte sono sunnite, ma troviamo anche donne yezide o cristiane” e prosegue “La diversità che trovi a Jinwar la puoi trovare anche nel resto del Rojava, non a caso così inizia il Contratto sociale “Noi popoli che viviamo nelle Regioni Autonome Democratiche di Afrin, Cizîrê e Kobanê, una confederazione di curdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni, armeni e ceceni”, mette in luce la diversità insieme, alla ricerca di una visione olistica del mondo e del territorio”.
Ciò che spicca a Jinwar e nel Rojava, è la convivenza multiculturale e confessionale in cui la socialità è caratterizzata da un forte sentimento collettivo “Percepirsi organismo” sottolinea Fabiana “Questo è il presupposto di ogni atto legato al bisogno di includere e di organizzarsi. Stando in villaggio capisci che percepirsi organismo significa imparare a vedere l’altra e includerla nel processo. Si tratta di donne che costruiscono un’identità̀ e una storia insieme. Questo particolare atteggiamento sociale è opposto al nostro in cui si rafforza nello stare lontane e ci si pensa non come organismo ma come individui isolati”, e chiarisce ricordando un episodio di profonda unità fra donne sperimentata a Jinwar:
“Una volta, c’era stato un attacco nelle vicinanze e si era saputo che delle compagne fossero state ferite, durante l’assemblea di quel giorno è stato detto che in qualche modo la nostra presenza nel villaggio da quel momento doveva basarsi anche su questa consapevolezza”.
Una vita con i principi di Jineolojî
Qui le donne sperimentano la vita insieme secondo i principi del confederalismo democratico, di cui Jineoloji – la scienza delle donne – ne è la scienza fondativa, le chiedo così: “Durante la tua permanenza a Jinwar, hai individuato una corrispondenza fra la teoria dei principi educativi di Jineolojî e la prassi della vita quotidiana?”
Prontamente, risponde citando la diversità etnico-culturale presente nel territorio: “Nella pratica quotidiana vivere secondo i principi di Jineolojî e quindi, del confederalismo può esprimersi anche con la traduzione per affrontare un problema di comprensione linguistica fra compagne durante assemblee e attività affinché tutte possano capire e per non escludere neanche una persona. Di solito c’è anche la presenza degli internazionalisti che aiutano a tradurre gli interventi, infatti l’ambizione è quella di fare partecipare tutte, ma non in modo formale come accade da noi in occidente, per le donne a Jinwar l’importante è essere lì per esprimersi, anche solo ringraziando ed iniziare una relazione umana e di pensiero nella processualità̀. Quasi ogni giorno, inoltre, ci sono dei momenti assembleari a cui partecipano sole donne, questi sono sempre Tekmil, in cui tutte prendono parola ed esprimono una critica positiva o negativa che deve essere breve e sintetica nei confronti di una compagna, allo scopo di migliorare la vita insieme. Anche questo è uno degli aspetti in cui emerge una rara corrispondenza fra teoria e pratica” conclude.
L’importanza della cura
Rimettendo così al centro la vita insieme e l’importanza della cura, come si organizza la vita sociale e affettiva all’interno del villaggio delle donne? Fabiana anticipa di una vita nel villaggio che si sviluppa principalmente attorno alla rotazione dei lavori. Le donne partecipano alle attività e anche i loro figli possono unirsi, se ne hanno, così come gli uomini fino al tramonto.
“I momenti di convivialità sono molto importanti. Almeno una volta al giorno, solitamente all’ora del pranzo, si mangia insieme e c’è qualcuna che prepara il cibo per tutte. Il tema della condivisone si allarga oltretutto anche alla dimensione familiare, le donne da un punto di vista logistico mantengono dei nuclei familiari autonomi con i loro figli e cioè ogni donna ha un’abitazione propria e privata che sia accogliente, con arredi e decori, e il necessario per vivere a seconda delle esigenze. Dall’altra l’educazione dei figli e le relazioni che si instaurano sono collettive e ci si comporta all’interno di Jinwar come una grande famiglia allargata, soprattutto nell’incontro delle esigenze educative e mentalità̀ fra madri di culture profondamente diverse nasce un nuovo incontro fra sensibilità̀”.
Essendoci addentrate in una microsocietà che pone al centro la liberazione delle donne, da un punto di vista di emancipazione della mentalità patriarcale e l’assunzione di una prospettiva più in linea con i principi della rivoluzione delle donne, ci sono delle differenze consistenti di mentalità fra le società del Rojava e Jinwar per quanto riguarda la considerazione delle donne?
“Nell’Amministrazione Autonoma c’è ancora una struttura patriarcale molto forte sia nelle società che nelle famiglie; infatti, i problemi che sorgono all’interno della famiglia patriarcale spesso vengono risolti attraverso i Mala Jin a cui le donne si rivolgono, e attraverso questa mediazione che si sperimenta soprattutto quell’apertura mentale che ha inizio dal dialogo. Molto dipende anche dall’identità e dalla storia di una certa città, a Raqqa per esempio c’è un maggiore conservatorismo, lì le donne a causa dell’ISIS non sono uscite di casa per cinque anni, a Kobanê le donne hanno aiutato nella liberazione della città e in qualche modo hanno ottenuto un riconoscimento sociale diverso e nuovo anche grazie a ciò. Ad ogni modo il patriarcato con l’avvento della rivoluzione ha subito un’incrinatura. Se crei un’organizzazione autonoma riesci ad esser percepita come entità. A Jinwar la situazione è differente invece, sebbene anche fra donne ci sia un imprinting di patriarcato, si lavora insieme su questo aspetto in uno spazio sicuro”.
Il villaggio rappresenta un modello senza precedenti nella regione proprio in quanto non nasce come un progetto casuale, bensì si pone come il risultato di anni di attivismo che promuove la liberazione delle donne e la sua rivoluzione. Un luogo di riscatto per le donne che hanno fatto sacrifici durante la guerra. L’ambizione, riporta la giornalista curda Amina Hussein in un reportage “è la costruzione di città simili in tutte le città del Kurdistan siriano’’, offrendo così alle donne la possibilità di vivere in un ambiente sano che celebra la loro libertà e la loro partecipazione attiva nella società. Tuttavia, questo esperimento di vita insieme è compromesso dalla guerra “Nel caso specifico del villaggio le criticità sono legate per lo più da fattori esterni a Jinwar” mi dice Cioni “Cioè riguardano gli effetti dell’embargo e della guerra sulla vita quotidiana, e l’ubicazione posta a non troppi chilometri di distanza dal confine turco, tanto da riuscire a vedere il muro che separa i due Siria e Turchia”.
Di Jessica Perra
Un ringraziamento a Fabiana Cioni per la sua preziosa disponibilità, apertura e condivisone per quest’intervista.