(Simona Deidda – Dersim)– Ancora scontri e proteste in Turchia. Dai media trapela poco di ciò che accade in questo paese. Soltanto Istanbul e Ankara ottengono, un minimo, l’attenzione del mondo occidentale. Ma cosa succede realmente in Kurdistan, un terra che da oltre 30 anni lotta quotidianamente contro il governo di Ankara in una continua richiesta di riconoscimento di diritti identitari, culturali e linguistici?
La miccia è stata nuovamente accesa dopo la morte di due manifestanti a Lice, distretto di Diyarbakır, dove da mesi la popolazione protesta contro la costruzione di nuove postazioni militari lungo la strada che collega Bingöl a Diyarbakır. Per giorni la strada è rimasta interrotta. L’8 giugno però le forze militari hanno aperto il fuoco contro i manifestanti uccidendo due di loro, Hacı Baki Akdemir (50) e Ramazan Baran (26), mentre altre persone sono rimaste ferite. Questo ha portato numerosissime proteste in diverse città della Turchia, İstanbul, Izmir, Diyarbakır, Dersim, Mersin, Adana, Urfa, distretti di Şırnak, Hakkari, distretti di Diyarbakır – che si sono susseguite negli ultimi giorni.
Proteste pacifiche guidate dai leader dei partiti di opposizione, principalmente curdi come BDP e HDP, esponenti di ONG, l’Assemblea delle Madri della Pace e migliaia di cittadini comuni che sono scesi in piazza per protestare contro il governo centrale con slogan che hanno accomunato tutto il paese: “ll fascismo dell’AKP ha compito il massacro di Lice”, “Siamo con te, popolo di Lice”, “Da Gezi a Lice, AKP assassino”, “Il popolo di Lice non è solo”.
Le proteste pacifiche segnate da slogan, sit in e lunghe marce sono state seguite da scontri violenti con le forze di sicurezza turche. Sono state decine gli arresti di giovani e giovanissimi, molti dei quali teenager o studenti universitari. Anche qui, a Dersim, gli scontri sono stati accesi. Nella giornata del 9 giugno, manifestazioni politiche pacifiche si sono svolte nelle strade della cittadina, seguite in nottata da scontri violenti con l’esercito presente in città che hanno portato all’arresto di 7 studenti, di cui attualmente 4 rilasciati e 3 tenuti sotto custodia con l’accusa di “attività criminali”.
Il Kurdistan in questi giorni è terreno di battaglia. E le parole del PM, Recep Tayyip Erdoğan pronunciate negli ultimi giorni, confermano che la lotta non è certo sul punto di concludersi. In seguito alle cerimonie funebri dei due manifestanti di Lice, sabato una bandiera turca è stata rimossa da alcuni manifestanti all’interno di una delle basi militari nella provincia di Diyarbakır. Un gesto considerato dal PM un vero e proprio attacco alla nazione turca per il quale è stata, immediatamente, aperta un’inchiesta in cui sono coinvolti alcuni ufficiali della stessa base militare che avrebbero permesso che ciò accadesse.
Erdoğan ha affermato che i militari avrebbero dovuto sparare coloro che si accingevano a fare questo gesto. Due di loro sono stati immediatamente identificati, rimossi dalle loro posizioni e inviati in altre zone del paese. Erdoğan ha identificato nei principali partiti di opposizione gli organizzatori di tale gesto, sostenendo che CHP e MHP hanno interessi affinché il processo di pace con il popolo curdo non venga portato a termine.
Gli stessi partiti filo-curdi, HDP e BDP sono stati messi sotto accusa, sostenendo che “né questi, né tanto meno atti terroristici come l’offesa alla bandiera turca possono rappresentare i suoi fratelli e sorelle curdi”. Il premier ha poi detto che per questi partiti “il miglior curdo, è il curdo morto, e il miglior alevi è l’alevi morto”. Atteggiamento decisamente curioso per colui che ha condannato i militari per non aver sparato un sedicenne che si accingeva a rimuovere la bandiera turca. D’altra parte gli stessi curdi vedono dietro questo gesto un complotto, non riconoscendo in quel ragazzo un sostenitore del PKK, come afferma il governo di Ankara.
La rimozione della bandiera ha provocato un’ondata di violenze in alcune città turche, in cui gruppi razzisti hanno violentemente attaccato curdi, socialisti e studenti che manifestavano. Sono stati bruciati dei cartelloni e ad Ankara in Güvenpark un gruppo di socialisti è stata minacciato con slogan quali “Ammazzeremmo tutti voi traditori”.
La tensione rimane alta in tutto il paese, le parole del Primo Ministro ancora una volta buttano benzina su un fuoco che non accenna a spegnersi e la risoluzione della questione curda rimane lontana. Il processo di pace lanciato nel marzo 2013 dal leader curdo Abdullah Öcalan rimane, ancora, un’utopia.
Simona Deidda. Dottoranda in storia, istituzioni e relazioni internazionali dell’Asia e dell’Africa moderna e contemporanea, attualmente si occupa di questione curda in Turchia. Si è laureata nel 2011 con una tesi dal titolo “Il diritto di esistere. Il popolo curdo e la cooperazione internazionale: il caso della Turchia”.